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Gabriella Schelotto scrittrice fuori dal coro
L’attesa
Stava seduto fuori della chiesa sopra un sedile di pietra. Uno di quei sedili riservati un tempo agli uomini che li occupavano la domenica, dopo la Messa, chiacchierando ad alta voce e scaldandosi al sole dell’inverno. Da quel rito ulteriore le donne erano escluse e, uscite di chiesa, correvano a casa ad occuparsi ancora della famiglia e preparare il pranzo della festa. Sopra quei sedili riposavano anche i poveri dei poveri, gli straccioni sporchi e ubriachi; ai bambini era vietato non solo sedere, ma pure accostarsi a quelle pietre annerite e lucidate dagli abiti logori degli accattoni. La chiesa, Rocco la conosceva bene: c’era cresciuto e per molti anni, fanciullo, adolescente e infine uomo maturo, tutti nel quartiere ricordavano di averlo visto dentro e fuori le sacre mura. Era stata la sua parrocchia cui aveva offerto il proprio servizio mentre lavorava e studiava. Adulto, aveva svolto con orgoglio e un briciolo di presunzione gli incarichi affidatigli dal Don Cavassa, finché in un periodo divenne il tutto fare dell’Azione Cattolica. Orfano del padre a tredici anni e primogenito di cinque figli, proprio nel periodo in cui infanzia ed età adulta pesano come spauracchi inaccettabili sulla mente e sul corpo che cambiano, gli era mancata tutta la famiglia e l’attenzione sempre cercata della madre. Donna coraggiosa sua madre, con tanti figli da crescere disseminati in altrettanti collegi quando, da poco vedova, aveva ottenuto un posto al comune e s’era messa a lavorare. Rocco reagì male al collegio. Non ne parlava mai, ma si sapeva che ne era scappato per tornare a vivere con la madre e da allora lavorò continuando gli studi. Lavori saltuari adatti a un ragazzo di tredici anni: a ben vedere adatti non lo erano tanto, ma non se ne lagnò mai. Di uno specialmente si ricordava: con un’insegna luminosa fissata al petto e alla schiena portava in giro il nome di una famosa libreria di via Garibaldi. Con indosso questo inconsueto vestito splendente di lettere dell’alfabeto, pubblicizzava un negozio di cultura. Tutto si svolgeva di sera, non si sa per quante ore. Ricordava il freddo Rocco, il freddo intenso e tagliente portato dal vento di tramontana, i geloni alle mani e ai piedi, le guance paonazze. Si capiva, ad ogni modo, che non doveva dispiacergli e quando raccontava di allora un sorriso leggero e tuttavia fermo gli si disegnava appena sul volto maturo. Quel sorriso conservava ancora un po’ il fresco che, allora, si appiccicava alle sue guance di adolescente e poi le faceva bollire al rientro, nel caldo delle stanze chiuse. Di più non raccontava, ma quel sorriso appena abbozzato e ancora pieno di un’ironia infantile e ammiccante, discendeva direttamente dall’antico freddo e dalla passione per i libri che, probabilmente, risaliva a quegli anni. I libri li amò e cercò sempre di non farsi sfuggire nulla perché doveva conoscere, voleva capire: letteratura, ma anche storia e matematica, poesia e filosofia, statistica e teologia. Poi approdò ai libri d’arte, ma questa fu ancora un’altra storia e studiare e fare arte divenne la sua principale occupazione.
Quel giorno era il quattro maggio, Rocco sedeva sul sedile di pietra, lo sguardo rivolto verso la scuola, aspettando il feretro di suo cognato e sembrava indifferente, ma la sua apparente freddezza si identificava con le ineluttabili certezze della vita. Pensava a tutti i morti che aveva dovuto vedere. Morti vicini, parenti, giovani e vecchi. Con una rabbia che niente riuscì negli anni a mitigare, sua moglie gli rimproverava di trarre un suo piacere dalla morte e, in quei frangenti, lo chiamava necroforo. Per lui ormai era difficile sperare e ogni nuova morte sostituiva al dolore, che diventava sempre più fievole e appena percettibile, un dignitoso cinismo di circostanza. Sfilavano adesso davanti a lui quei morti, come attori su un palcoscenico, ognuno in cerca dell’applauso a fine spettacolo e ciascuno tentava di esprimersi con un movimento, uno sguardo, un battito di ciglia. Si avvicinavano per dirgli che erano vissuti e continuavano a vivere e tutti portavano un dono, impalpabile, ma così reale: gli restituivano la sua vita esattamente come era stata, anzi , con qualcosa in più, recandogli tutto quello che, mentre era indaffarato a vivere, gli era sfuggito senza colpa. Come i conti tornavano! E come tutto poteva finalmente essere riposto in ordine perfetto!
Le campane cominciarono a rintoccare in modo lugubre. Il suono delle campane a morto lo schiacciava come se gli risuonassero appoggiate al petto. In quella tarda mattinata del quattro maggio, le campane della chiesa parrocchiale di San Martino suonavano a morto per il cognato di Rocco. Rocco aveva finto tutta la vita di detestarlo, ma era stato poco convincente e ora, gli rincresceva ammetterlo, sentiva quel distacco come l’ultimo che gli toccasse sopportare, con un senso di rassegnazione e di libertà. Nessuno ricorda se Rocco entrasse in chiesa per assistere al funerale né, se entrò, dove si sistemò, cosa fece dopo o cosa disse. Probabilmente non pianse e non parlò. Ma questo non importa. Di sicuro si allontanò con la mano nella mano di un bambino biondo in cerca di un gelato: era suo nipote il più piccolo. Dura il ricordo di lui seduto sulla pietra fuori della chiesa, lo sguardo lontano. Rocco aspettava, era pronto da tempo e lo dimostrò, a pochi anni di distanza. E un giorno d’agosto, le campane di San Martino suonarono per lui.
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