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e.mail:
alfaquilae@gmail.com |
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II La casa
In famiglia erano in sei ad abitare la casa
sotto il forte e a trecento metri dalla costa. La costa, nulla
aveva a che vedere con la riva del mare: era un crinale, uno
spazio attorno a cui si apriva a ventaglio la vista sui monti
del Nord e sul mare, verso Sud.
Lo stesso mare lontano, ma presente come una sentinella, si
delineava di fronte alle finestre e il suo colore era la
risultante di tutti gli azzurri, di tutti i verdi, di tutti i
blu, profondamente mescolati e poi fissati in quell’unica tinta
sempre uguale e stabile al pari della sua superficie
perennemente liscia, ferma e dritta: dalla riva nascosta alla
vista, si estendeva fino alla linea dell’orizzonte.
Nei giorni di mal tempo il mare spariva e il vento si infilava
lamentandosi alla maniera di una bestia ferita tra le colline e
i monti scuri, indistinti quando stretti attorno alla casa,
anziché soffocarla le alzavano attorno una barriera di
protezione.
La pioggia, se scrosciava di notte, percuotendo traversa le
persiane sprangate, accompagnava con discrezione alla soglia del
sonno e la mattina, dal mare distante del porto risaliva il
rumore della sirena di una nave e il risveglio era generoso di
promesse.
Gala entrava in camera delle figlie e scostava le tende:
attraversate dal primo sole, proiettavano sul muro trine di luci
ed ombre; poi, dischiusi i vetri e spalancate con foga le
persiane, prendendosene il merito: -Bambine! E’ bel tempo!-
Annunciava.
La casa restava l’unico posto del ritorno dentro al ciclico
rincorrersi delle stagioni.
D’inverno, la neve cadeva puntuale e riuniva una moltitudine di
sentimenti per arricchirli di risonanze insolite, stemperando le
emozioni dentro intimità mai tentate. Dai semplici atti
quotidiani compiuti senza fretta e con il disimpegno dei rari
momenti in cui è concessa una tregua, si irradiava una serenità
interiore molto vicina alla pace. Fuori, isole di morbido bianco
ridisegnavano il paesaggio dopo che le raffiche del vento
notturno e furibondo avevano spazzati i fiocchi lenti e
abbondanti, accumulandoli secondo scelte casuali e fantasiose.
In giugno, il bosco, chiamato così ancora dopo la guerra (le
querce adulte con le foglie fresche e il tronco pulito erano
state abbattute) si inondava di ginestre. I rami verdi simili a
giunchi spuntavano tra i sassi in cespugli folti e larghi
cosparsi di fiori piccoli, resistenti, odorosi e di un giallo
lucente che riempiva gli occhi modificando completamente il
panorama all’inizio dell’estate.
La fioritura allargata al bosco e ai dintorni diffondeva
un’irrequietezza smossa dal sentore della vita sul punto
d’esplodere e dal desiderio conseguente e incoercibile di cose
nuove. Lo scorrere accelerato del sangue e il battito del cuore
si percepivano nel lieve, caldo pulsare delle tempie. Un
languore sensuale, sconcertante, accordato alla spossatezza del
primo caldo, tagliava le gambe e svegliava emozioni dense di
presagi esasperati nella notte di San Giovanni.
Le rondini erano tornate da un pezzo e sulla fine del giorno si
davano appuntamento nello spazio di cielo sopra la casa per
sfogare l’istinto a un volo tenace, fatto di continui decolli e
atterraggi senza fermate, in una coreografia da parata che si
arrestava d’improvviso al calare della notte quando riunite in
stormo si allontanavano, abbandonando il palcoscenico
all’esibizione stentata e inquietante dei pipistrelli.
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OoOoOoO
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