Il giardino
segreto
Il giardino era grande bello e invidiabile.
Le bambine se ne resero conto quando erano tre donne fatte,
ognuna per la sua strada.
Questo ritardo non ostacolò la percezione della straordinarietà
del luogo quale naturale ampliamento della casa, contrada
autonoma, inesplorata, tutta da conquistare. Un territorio dai
confini mobili e indefiniti, ricco di innumerabili spazi
dell’essere, disseminato di costruzioni e recessi: alcuni
incutevano sconcerto e furono perlustrati per ultimi con la
fretta suscitata dalla paura.
Uno, il sottoscala buio e ingombro di attrezzi da giardinaggio
dimenticati; per quanto angusto, sembrava non avesse un fondo.
L’altra, la cantina con la finestra alta difesa da una grata,
chiusa dietro una porta di legno grezzo lasciata incompiuta per
chissà quale accidente e che si apriva alla rovescia con una
chiave di ferro grossa e arrugginita. Dentro vi stagnava un
odore acre e vi stettero rinchiusi oggetti bizzarri, misteriosi
e inutili: non si potevano buttare via.
Gli spazi aperti erano movimentati da rocce. Alcune in forma di
sedili. Fiori sparsi delle specie più variate. Aiuole e
vialetti, strade di una città rigogliosa sottratta a un sogno. E
prati, terrazze, poggioli.
Il terrazzino col pergolato intessuto di glicine e roselline
gialle.
Ringhiere affacciate ovunque: sul bosco, sul prato coltivato per
metà a orto, sull’aiuola che affiancava il breve tragitto verso
il terrazzo.
E tante scale!
Le scale ripide e consumate di ardesia scendevano
in giardino; le scale di pietra salivano dolci e incurvate fino
al terrazzo grande; le piccole scale in cemento, impresse di
minuscole rientranze a puntini, raggiungevano la soglia del
terrazzino coperto e con le pareti tinteggiate di rosso ormai
sbiadite al tempo in cui le bambine lo arredavano rozzamente e
lo trasformavano in un’altra casa.
Due allori delimitavano in modo asimmetrico il giardino, enormi
come baobab.
Uno, piantato a ridosso della facciata, si era allargato nel
fusto ed espanso senza limiti: le sue fronde raggiungevano il
secondo piano della casa, ombreggiando la camera della nonna e
immergendola in una gradevole e perenne semioscurità. L’altro,
lasciava affiorare le radici robuste e tentacolari lungo il muro
di cinta al lato estremo del terrazzo, crescendo sul confine con
la villa del medico.
La potatura di questi giganti era evento eccezionale, vissuto
con molta preoccupazione. Intervento sempre rimandato, lasciava
negli abitanti della casa il senso di una mutilazione ingiusta.
Accadde (non più di due volte in tanti anni) che gli incaricati,
raccattati all’ultimo momento per il compito di potare gli
allori, ne recidessero senza riguardo fronde e tronco. Le piante
ricrebbero, ma nel frattempo il lutto s’era abbattuto sulla
famiglia a significare come nel giardino ogni elemento avesse
vita propria e fosse insostituibile.
L’immutabilità era la forza e l’essenza stessa di quel luogo
nascosto. Quanto sopravviveva, incluse le poche sedie e gli
sgabelli di ferro intrecciato, vecchi compagni del tavolo di
graniglia compressa, sprigionava un’aura di sacralità ed era
ancora utilizzato dalle bambine nei loro giochi.
Di piante ce n’erano molte.
Un oleandro ondeggiava nel limite estremo del pianoro sopra il
terrazzo cui era congiunto dall’ennesima scala coi gradini alti
e stretti, scavati nella roccia. I fiori rosa delle corolle
folte di petali erano appariscenti e sopraffacevano le foglie
ellittiche. La pianta, scossa dal vento o dall’intrufolarsi
cauto delle bambine consapevoli dell’ambiguità di certe virtù
taumaturgiche e venefiche, liberava il profumo dolce amaro dei
fiori.
Messo a dimora in epoca recente, l’arbusto d’erba Luisa le
attraeva di più; sottile, tutto foglie verde chiaro: a
strofinarle lasciavano sulle mani un’essenza oleosa leggermente
profumata di limone e menta, ma del tutto singolare.
Da quello stesso muro di sostegno al pianoro, sopra il terrazzo,
sporgevano a ciuffi disordinati le violacciocche bordate di
rosso e amanti del sole; per radicare e crescere si
accontentavano di poca terra dimenticata dal vento e
scoraggiavano l’intenzione di coglierle. Lo sguardo si perdeva
tra le foglie aride e opache, dove restava catturato dai fiori,
spettatori distratti di una vita trascorsa e restituita per un
attimo ancora pulsante.
L’arancione carico delle calendule basse, dalle foglie
appiccicose e arrotondate, saturava la vista con macchie di luce
per il modo in cui le piante si erano raccolte in cuscini,
spontaneamente, cosicché sembravano posati sopra le aiuole da
una mano distratta. Le semenze leggere, col colore secco della
paglia, erano buonissime da mangiare, più del pistillo bianco,
dolce e fresco dei fiori di glicine, piumini violetti penzolanti
a portata di mano.
Le piante di rose crescevano sparpagliate senza un criterio ed
erano tutte della stessa qualità inglese profumata e adatta alla
preparazione dello sciroppo zuccheroso di cui la nonna possedeva
il segreto.
Verso la fine di febbraio, lungo il perimetro dell’aiuola
rotonda del nespolo fiorivano i narcisi, dritti sul loro stelo,
sussiegosi: le bambine ne facevano un mazzetto legato da fili
d’erba piatti e incoraggiate dalla nonna lo portavano alla
maestra.
Tutti gli alberi erano stati piantati dal nonno, anche quelli da
frutto.
Un pero invernale se ne stava solidamente radicato nell’aiuola a
forma di scarpone. Le pere avrebbero dovuto completare la
maturazione sulla credenza della cucina. Staccate anzitempo
dall’albero e addentate durissime, acerbe, legavano il palato e
facevano salivare per l’inconfondibile gusto asprigno. Le
nespole le mangiavano mature, restando arrampicate sulla pianta
e accovacciate tra i rami per una consuetudine iniziata con
destrezza dalla maggiore e imitata con un certo sforzo dalle
sorelle. Erano dolci e una peluria leggera ricopriva la buccia
giallognola, tesa sulla polpa dissetante e saporita. I due
noccioli marroni, viscidi, identici, sgusciavano a terra e a
volte sparivano dando vita a una nuova pianticella che non
sopravviveva.
Sul nespolo alto, solido e accogliente, alla giusta stagione
trascorrevano pomeriggi interi. D’inverno, le scalate all’albero
erano interdette dalla preoccupazione di sciupare quel
meraviglioso, smisurato bouquet fatto dalle foglie argentee e
dalla fioritura in mazzetti bianchi e morbidi, simili alle
stelle alpine.
Gli alberi di fico erano rinomati in tutta la parentela. I
frutti, tra agosto e settembre, maturavano avvicendandosi tra le
foglie scure, larghe e dalla forma inconfondibile. Quel raccolto
pareva non esaurirsi. I fichi del giardino, perfetti nella
forma, appena spaccati dalla goccia di resina dolce (un invito
esplicito ad assaggiarne la polpa a grani arancioni) non ebbero
eguali.
Le bambine esploravano i rami e, al modo dei funghi tra le
felci, apparivano i fichi, lasciandosi docilmente staccare.
Le indigestioni profetizzate dalla nonna sottrassero
spensieratezza alle mangiate, ma non ottennero l’effetto di
scoraggiarle.
La vite d’uva moscatella coi lunghi grappoli stipati di acini
piccoli e liquorosi correva abbarbicata alla rete divisoria del
giardino, più piccolo e molto ordinato, del vicino: un sardo
basso, magro, con due baffetti ridicoli sul viso caprino, del
quale le bambine avevano un timore del tutto ingiustificato.
Nel punto in cui la vecchia vite aveva termine, dalla stessa
rete di ferro arrugginito, si allungavano i rami cedevoli di un
alberello vestito di fiori pallidi e delicati, intoccabili. La
madre li chiamava“fior d’angelo”. Le bambine si avvicinavano per
guardarli, incantate, e non ebbero mai il coraggio di sfiorarli
con le dita, convinte che appartenessero veramente a una schiera
di angeli.
OoOoOoO
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