Nel capitolo dedicato agli accessori
parlo ovviamente (e non potrei farne a meno) di quel bellissimo
oggetto che è il pentaprisma.
Peraltro il mirino a pozzetto che
caratterizza le biottica Rollei offre il massimo di leggerezza,
robustezza, praticità e versatilità d’impiego, al punto che mi
chiedo per qual motivo le varie reflex 35 mm professionali non
prevedano più la possibilità, che una volta offriva ad esempio la
Canon F1, di sostituire il pentaprisma con tale utile accessorio,
in modo da evitare ai professionisti che devono fotografare al di
sopra della folla, di puntare alla cieca, sollevando in alto
l’apparecchio.
Un grande fotografo non amava
tale tipo di mirino e ironizzava sulla pretesa di vedere il mondo
all’altezza dell’ombelico.
Con tutto il rispetto che si deve
ai maestri (ma ho imparato che in ogni settore coloro che sono
capaci di fare grandi cose spesso si abbandonano a critiche assai
povere di contenuto), rilevo anzitutto che quella parte anatomica
è il centro della ideale cornice in cui si iscrive la figura umana
e una persona ripresa a distanza non superiore ai tre metri viene
ritratta con il minimo di deformazione prospettica proprio se
l’apparecchio è “in bolla” e l’asse dell’obiettivo si trova in
linea con l’ombelico.
Ma il pozzetto offre infinite
varietà di ripresa.
Sul numero di settembre 2002 di
Fotografare vi è un interessante articolo sulla Seagull, che
citerò in altre occasioni. Alla pagina 38 potete vedere una
divertente serie di fotografie che pongono in rilievo talune prese
inconsuete, rese possibili appunto dal pozzetto.
E l’esemplificazione è tutt’altro
che completa: si pensi alla possibilità di fotografare un bimbo
all’altezza del suo corpicino, semplicemente flettendo un poco la
schiena e le ginocchia, all’uso di un albero quale appoggio per
l’apparecchio in orizzontale, con l’operatore che a lato inquadra
senza difficoltà, all’apparecchio sostenuto a braccia tese e
orientato verso il basso, con la cinghia di dotazione tesa contro
il collo dell’operatore, a formare un complesso triangolare che
riduce le possibilità di micromosso.
Nel numero 15 della Biblioteca
del fotografo, destinato alla composizione fotografica compaiono
alle pagine 24 e 25 due foto scattate dallo stesso punto e con lo
stesso obbiettivo (un grandangolare da 24 mm). Nella prima,
scattata con l’apparecchio all’altezza dell’occhio, un triviale
parcheggio di automobili rompe la continuità fra l’aiuola di fiori
rossi e la chiesa sullo sfondo. Nella seconda, scattata raso
terra, i fiori in primo piano ben si sposano, nella loro distesa,
con la simpatica costruzione (per vero un poco deformata nella
prospettiva dal grandangolo spinto.
L’autore fa presente di essersi
dovuto sdraiare a terra e di aver così suscitato la curiosità non
necessariamente benevola dei passanti.
Con una Rollei dotata di mirino a
pozzetto, eventualmente corredata di Mutar 0,7 per ampliare
il campo dell’immagine e render meno selettiva la messa a fuoco
sull’iperfocale la foto ben poteva essere scattata con
l’apparecchio tenuto dignitosamente a mano o al più montato su uno
stativo o su un monopiede alla minima estensione (e magari la
prospettiva sarebbe risultata più gradevole).
Guardate ora, si parva licet
componere magnis questi
simpatici
cagnolini
da me ripresi all’interno del recinto che li racchiudeva e pensate
se tale graziosa immagine si poteva realizzare con una qualsiasi
reflex dotata dell’universale pentaprisma.
Il massimo di originalità (o di
stranezza) credo di averlo realizzato la scorsa estate: nell’alta
val di Rabbi volevo riprendere la
gola alberata
che si restringe
fino a chiudersi, solcata da un ruscello ricco di cascatelle.
Ovviamente non volevo gelare il movimento dell’acqua, fra l’altro
abbastanza lontana, e dovevo perciò scattare a 1/8 di secondo. Non
disponevo di monopiede o treppiede e quindi, adocchiato un robusto
tavolo di legno da pic nic ho appoggiato la mia Rollei al bordo
del manufatto, controllando da lato l’immagine. Ho visto
subito che l’apparecchio, se appoggiato completamente, non rendeva
l'inquadratura che mi ero prefissato di ottenere e quindi l’ho
inclinato un poco, alzando il lato anteriore della base. A questo
punto però non ero sicuro della stabilità: occorreva una zeppa da
collocare anteriormente. Ho provato tutte le dita della mia mano
sinistra fino a trovare lo spessore voluto; a questo punto
ho scattato senza problemi di stabilità dell’apparecchio.
Ma a parte questa casistica sulle
posizioni di appoggio che consentono ugualmente di verificare
l’inquadratura, sicuramente suscettibile di arricchirsi con le
esperienze dei rolleisti, si deve segnalare che il pozzetto della
Rollei, nella sua evoluzione quarantennale, ha sempre offerto il
massimo di funzionalità ed ha consentito una varietà d’impiego
ignota alla concorrenza.
Già nella mia Automat del 1939 il
pozzetto, composto di due pezzi che si aprono a
conchiglia, consente la mira diretta a traguardo, ad altezza
d'occhio, e la contemporanea verifica della messa a fuoco
attraverso un gioco di specchi e l’oculare sottostante. Manca
solamente il correttore di parallasse.
Nei modelli successivi viene
introdotto questo utile congegno ma vengono mantenute le
caratteristiche fondamentali (salvo semplificazioni nei vari
meccanismi e, nel raffinato modello 2,8 C, la possibilità di
adattare la lente alla vista dell’operatore mediante un semplice
spostamento sulla cerniera).
Con i modelli F il pozzetto diviene
amovibile con il disimpegno di due chiavistelli e le due facce
sono collegate da schermi che si chiudono a libro.
È così possibile passare in pochi
secondi dal pozzetto al pentaprisma e viceversa.
Nel più economico modello T manca la
possibilità di controllare la messa a fuoco mentre si usa il
mirino a traguardo e tale carenza ricorre anche nella Rolleicord
VB.
Chiudo con un’osservazione: in tutte
le mie Rollei, ovviamente, eccezion fatta per la Rolleicord VA,
acquistate di occasione e non sempre tenute dai precedenti
proprietari con la cura che il meraviglioso apparecchio merita, il
pozzetto si apre e si chiude con un movimento dolcissimo, la lente
va agevolmente in posizione e ritorna a riposo con leggera
pressione, il mirino a traguardo si comporta in egual modo.
Solo nell’Automat del 1939, vittima
evidentemente di un maldestro smontaggio, ho dovuto rivolgermi a
Leicatime per fare risistemare il congegno di apertura del
traguardo.
La bontà del progetto e della
costruzione sfida dunque l’usura, il volgere inesorabile del tempo
ed anche qualche maltrattamento.
OoOoOoOoOoO
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